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Winter salad ai fiori d’arancio

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Ingredienti
1 finocchio grande e tondo
1 avocado non troppo maturo
Mezzo melograno
125 gr di yogurt di soia bianco naturale
Limone
Acqua di fiori d’arancio
Pepe nero
Sale
Olio

Preparazione
Monda il finocchio delle falde esterne troppo fibrose, dei gambi e della radice, taglialo in 2, lavalo ed affettalo in modo da ottenere delle fette di qualche millimetro che non si separano. Scalda una piastra e quando è bollente griglia rapidamente le fette di finocchio su ambo i lati, senza cuocerli del tutto in modo che mantengano la croccantezza. Spolverali leggermente di sale.

Spacca il melograno e separa i chicchi dalle membrane interne.

Taglia in 2 l’avocado, elimina il seme, sbuccialo e taglia delle fette di qualche millimetro a forma di mezza-luna.

A parte prendi 2 barattolini con coperchio che userai per fare 2 emulsioni:
olio+succo di limone (1a2)
olio+acqua di fiori d’arancio (1a2)
Chiudi i barattoli e shakera i composti fino ad emulsionarli completamente.

In una ciotola versa lo yogurt, aggiungi un pizzico di sale e di pepe e lavoralo con una frusta; mescolando aggiungi un po’ di ciascuna emulsione, fino ad ottenere un equilibrio di sapori che ti soddisfa (io preferisco una predominanza di fiori, ma è soggettivo).

In un piatto appaia le fette di finocchio con quelle di avocado e sgranella i chicchi di melograno; in tavola lascia la salsa di yogurt a parte, in modo che ognuno la versi a piacere sulla propria porzione.

 

Promenade

Una cascata di capelli color del sole. Una fata dai capelli di luce danza nel cielo e stringe un giovane uomo – girandola in un volo di Chagall.
Una cascata di parole nella notte di un tempo: due adolescenti sotto le stelle.
Camminavamo nel buio. In montagna di notte l’aria friccica le narici: un profumo pungente di aghi di abete e terra umida. Procedevamo in silenzio e abbandonavamo la strada: le case sprofondavano nel blu alle nostre spalle, e noi in quell’altra oscurità chiara davanti a noi. Procedemmo mille volte fino a quel punto – era il rumore dell’acqua a chiamare i nostri passi. Attraversavamo l’erba sottile del pendio e ci sedevamo sulle pietre vivide e fredde. “Raccontami una storia”. E lui iniziava la fiaba, e io mi facevo accosta. Aveva la pelle bianca e mani di Chopin.
Non conosco le mille e una notte, ma credo che anche quel narrare fosse un alibi: un alibi per essere lì, per accedere a quel tempo e a quell’incontro, un abracadabra da ripetere piano, ogni volta prima che la porta si chiuda.
Restavamo in quel varco, sul limite di una soglia.
Quando mi insegnarono a disegnare, mi dissero di guardare il vuoto e di seguirne il profilo: “solo così disegnando una foglia potrai raffigurarla com’è davvero; se provi a riprodurla in sé, cadrai facilmente nella rappresentazione che la tua mente ha di essa a priori (un clichè)…ma se segui il profilo del vuoto esterno ad essa, ecco che appare”.
Era così anche allora: le parole aprivano l’aria, non costruivano spazi. Architetture invisibili: il vuoto si fa materia, svela il suo pieno e lo puoi respirare. Restavamo così. Poi il suono dell’acqua si faceva innanzi e ci restituiva a quel luogo e alle luci del paese poco lontano. Allora rientravamo a casa, addormentandoci vicini eppure increduli di quella distanza, e infine immersi in un sogno che ci conduceva alla realtà, come l’onda spinge la conchiglia sulla spiaggia.
Oggi le parole cadono. Cadono una ad una. Parole pioggia che è difficile fare storia. E allora non guardo la goccia ma il cielo.
Una cascata di capelli color del sole, la fata vola abbracciata al suo uomo: concentrata su quel volteggiare,  mi guarda e lascia scendere fino a me il suo torrente di luce. Poi si allontana.
Stringo nella mano fili d’erba color dell’oro. Mi sveglio.


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